Manchester ed io

Oggi mi trovavo in aeroporto (potrei condurre una rubrica direttamente da lì), come al solito con un largo ed inutile anticipo. Stavo leggendo One Month in the Country di J. L. Carr e bevendo una lager e scambiando qualche messaggio con amici per non morire di noia.

Ad un certo punto, mentre ci scambiavamo frivolezze, Mr. Darcy mi scrive, "Hai sentito di Manchester?".
"Sì, ho letto qualche articolo stamattina. Tu cosa dici?".
"Non lo so, volevo chiedere a te per questo".

Questa totale fiducia che Mr. Darcy puntualmente mi accorda, spiazzandomi tutte le volte, mi ha dato notevolmente da pensare. Perché, fino ad un istante prima, vivevo semplicemente un confuso e spontaneo cordoglio per 21 ragazzini che in un giorno qualunque hanno perso la vita.

Ma, in quel momento, mi trovavo di fronte a uno che mi chiedeva in qualche modo ragione di un fatto così violento e così inspiegabile. Mi chiedeva, banalmente, di guardarmi in faccia e pensare.

A questo breve scambio di messaggi è seguito un mio (lungo, per non smentirmi mai) messaggio vocale, nel quale timidamente parlavo come se Mr. Darcy ce l'avessi avuto di fronte, senza i miliardi di persone attorno a me, vagolanti come meteore nei bar dell'aeroporto.

Ve lo sbobino di seguito in corsivo, per comodità, e anche perché così vi evitate i miei simpatici intercalare del tipo, "Aspetta che la signora con la valigia fucsia mi ha preso dentro!".

Quello di cui mi sono resa conto è che noi di fatto già ci troviamo dentro una situazione di guerra. Probabilmente non come la Seconda Guerra Mondiale, ma ci troviamo a vivere nella stessa dimensione di paura e nella stessa dimensione di possibilità di essere attaccati, perché il l'unico criterio di questi terroristi è attaccare i civili; uscendo di casa, andando ai concerti, andando al supermercato, andando a prendere un aereo. E sta di fatto che 21 ragazzini sono morti andando ad un concerto. D'altra parte, quello che penso è che non possiamo smettere di fare le cose, altrimenti tutti gli anni che potremmo guadagnare e vivere in più, li vivremmo nel terrore e nella paura, e non so se vale la pena di vivere così.

Il fatto è sempre quello, cioè, avere paura sì, è normale, è sano, ma come secondo me, anche rispetto già agli attentati di Bruxelles, adesso ancora di più dobbiamo avere chiaro per che cosa vale la pena vivere ogni giorno, per cosa vale la pena stare in piedi ogni giorno, combattere, costruire una famiglia, costruire una casa, fare dei figli... Perché se non ce l'abbiamo una risposta o almeno un'ipotesi di risposta o una proposta rispetto alla nostra vita... Una delle cose che stanno mettendo sempre più a nudo questi tipi di attacchi, così frammentati, dei terroristi, è anche la vacuità o meno della nostra vita, cioè se la nostra vita ha un senso o se dentro un momento di paura e di messa alla prova ci troviamo davanti al nulla.

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