D'amore, di morte e di altre sciocchezze

Nelle sere in cui non riuscivo a prendere sonno, se non altro ho letto parecchio.
Camus, Carrère, Fante, Baricco, Roth, Fenoglio, Testori, Wallace... E li ho amati tutti tremendamente. Tutti hanno saputo parlare dentro il mio silenzio, hanno saputo aspettarmi e donarmi tutto quello che potevano.

Ma solo uno, fin'ora, solo un uomo... No, non si può spiegare così. Ma c'è un'immagine, de La Storia Infinita. Quando Atreyu, dopo aver passato le porte dell'Oracolo, si trova di fronte allo specchio che mostra il proprio vero io, e vede riflesso il volto di Bastian.

La Storia Infinita, 1984.
Ecco, per me Tolkien è stato così.

L'ho amato perché ha raccontato il dolore, quella spina di male in fondo al cuore, quell'antica solitudine che si accoccola sul fondo degli occhi prima di andare a dormire; ha raccontato il male lacerante delle cose che si spezzano e muoiono, delle ingiustizie, dei tradimenti degli amici, delle ferite profonde che non si rimarginano. Ha raccontato dei lunghi inverni del cuore. 

E lo ha fatto senza melodrammi, senza sentimentalismi, senza farciture. Ha spogliato il re e lo ha mostrato nudo, senza paura e senza vergogna. Lo ha fatto con discrezione, secondo la statura alta e gloriosa dell'epica.

Ho scoperto una cosa leggendo Tolkien, cioè mi sono accorta di una cosa, che prima non vedevo.
Il dolore, qualsiasi sia la sua origine, ha il potere solenne di scavare il cuore, di allargarlo, di fare spazio dove prima non ce n'era. 

Anche Lewis (C. S. Lewis) lo diceva, ma lui lo spiegava, Tolkien te lo fa vedere. E nulla è più limpido e sconvolgente del tuo volto che ti guarda da dentro uno specchio.

C'è un silenzio, dentro questi inverni del cuore, che nessuno ci ha mai raccontato, che nessuno ci ha mai insegnato a guardare, a respirare, ad aspettare. 

Si è al limite del profanum, quel gradino che separa la superficie delle cose dalla loro controversa sacralità.

Non ci piace, ma è così. Il dolore rompe l'imene della vita che speravamo di farci bastare fino alla fine. E a questo ci ribelleremo sempre.

Chissà se poi Brunori aveva ragione quando cantava, nella sua maniera straordinariamente semplice, "Perché il dolore serve / Proprio come serve la felicità". 

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