Ma è sempre un grande destino

Questa sera a cena si parlava con mamma di un intervento, di qualche giorno fa, di Alessandro D'Avenia in merito al mito di Orfeo ed Euridice [a questo link, assieme alla breve narrazione dei fatti trattati nel mito].

Sono sempre stata innamorata dei miti greci perché, come dice anche il prof. D'Avenia, il mito è l'archetipo della vita. Il mito non è quasi mai una favola, non ha il problema protestante di essere finalizzato ad una morale. Il mito racconta nella maniera più diretta e intellegibile, cioè parlando per immagini, quella che è l'insondabilità dell'animo umano; come un bisturi che cesella il cuore per mostrare alla luce ciò che per natura sarebbe al buio e nascosto.

Il mito di Orfeo ed Euridice, poi, è uno dei più potenti in assoluto, sia come vicende narrate sia per come entra nel cuore di colui che lo ascolta come una spada, fulminante, tagliente, lucida, improvvisa.

Uno dei ricordi più cari che ho legato a questo mito deriva dai tempi dell'università, mentre io ed Elena preparavamo (chissà per quale esame) le Georgiche.
Virgilio, nel Liber IV, narra delle vicende amorose e tragiche di questi due, il cui amore così grande è subito messo alla prova della Morte - forse come ogni vero amore, come dice il buon D'Avenia.
E mentre la storia giunge al termine, ed Euridice sta per uscire dalle porte degli Inferi, Orfeo, impaziente, ardente, innamorato, col cervello ormai completamente fritto e il cuore sulla soglia della gola, non ce la fa più, e si volta. 

E lì, Virgilio entra in scivolata con questo commento, che è forse il punto più doloroso di tutta la narrazione:

Cum subita incautum dementia cepit amantem,
Ignoscenda quidem, scirent si ignoscere manes.

Cioè, "In quel momento un'improvvisa follia prese l'amante [Orfeo, che decide di voltarsi], / [follia] certamente perdonabile, se gli dei [degli Inferi N.d.R.] sapessero perdonare".

Questi due versi sono terribile e violenti, dal sapore amaro della Morte stessa.
Da una parte, il cuore umano, di carne, sangue, mai veramente di pietra, mai veramente perduto, che scalpita come un animale ferito, in cerca di ciò che finalmente lo plachi, di ciò che finalmente gli dia pace. E, dall'altra parte, la Sorte, il Destino, gli Dei, che nemmeno il dolore più grande - quello stesso dolore che ha la potenza di commuoverci ancora dopo duemila anni, di farci gridare di rabbia e di ingiustizia, di farci piangere sul cuore di Orfeo - riesce a commuovere.

Tutto il coraggio, tutta la statura umana che si erge di fronte alla soglia della Morte, per poi sciogliersi nel cuore di Orfeo, a cui davvero il cuore non regge più, e compie il gesto più umano di tutti: si volta verso lei che ama.  Un gesto troppo umano, uno sbaglio, una svista nel sistema di ingranaggi perfetto del mondo.

Una volta un amico mi ha detto che secondo lui l'essere umano è un animale difettoso, perché è l'unico che desidera e non è mai felice, perché non riesce a smettere di desiderare.

Ma questa insoddisfazione, ma questo dolore sono la stessa insoddisfazione dell’uomo di fronte alla sua vita, troppo spesso più angusta e meschina di quanto la sua ideale bellezza sembrerebbe fare legittimamente sperare. Il dolore dell’uomo che trova di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe, la cui vita è tanto diversa dall’ideale vagheggiato nel sogno. È un dolore che non si placa, se non un poco, quando sia confessato ad anime che sappiano capire o cantato nell’arte o quando la forza di una fede o la bellezza della natura dissolvono quell’ansia e ridonino la pace. Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino.

- Aldo Moro

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